Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 25977 del 16 novembre 2020.
Nel caso esaminato, il datore di lavoro è riuscito, con un controllo successivo, ad accertare una condotta del dipendente, lesiva dell’immagine aziendale e costituente, astrattamente, reato.
Ebbene, la Corte di Cassazione ha espresso che questi accertamenti rientrano nella categoria dei controlli difensivi e, quindi, non richiedono l’osservanza delle garanzie previste dall’articolo 4, comma 2, dello Statuto dei Lavoratori.
Tali controlli non riguardano la sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa e, quindi, non necessitano di autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro o accordo sindacale.
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La sentenza è molto importante, perché affronta il caso dei controlli difensivi, ossia i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore, ribadendo la loro ammissibilità.
Negli anni, infatti, era emersa la questione legata alla possibilità per il datore di lavoro, specie in presenza di indizi concreti di illeciti in atto da parte dei dipendenti a danno del patrimonio aziendale, di effettuare una sorveglianza occulta sul luogo di lavoro per fugare il dubbio sulla sussistenza o meno di tali condotte, anche senza aver preventivamente richiesto l’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro o l’accordo sindacale.
Tale ammissibilità, però, non deve esser confusa con l’idea di applicare tali controlli come prassi ordinaria ed in pianta stabile.
Infatti, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che i controlli occulti sono ammissibili “anche ad opera di personale estraneo all’organizzazione aziendale, in quanto diretti all’accertamento di comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, ferma comunque restando la necessaria esplicazione delle attività di accertamento mediante modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, con le quali l’interesse del datore di lavoro al controllo ed alla difesa della organizzazione produttiva aziendale deve contemperarsi, e, in ogni caso, sempre secondo i canoni generali della correttezza e buona fede contrattuale” (Cass. n. 10955 del 2015)
Quindi, la videosorveglianza occulta è ammessa solo in quanto “extrema ratio”, a fronte di “gravi illeciti” e con modalità spazio-temporali tali da limitare al massimo l’incidenza del controllo sul lavoratore.
Queste in estrema sintesi le caratteristiche:
- proporzionalità della misura;
- preventiva sussistenza di indizi concreti di illeciti da parte dei dipendenti;
- sorveglianza limitata esclusivamente ad accertare illeciti costituenti astrattamente reato;
- l’interruzione del controllo una volta terminata l’indagine interna
SENTENZA
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 5 marzo – 16 novembre 2020, n. 25977
Presidente Nobile – Relatore Cinque
Fatti di causa
1. In data 29.4.2015 Be. Ga., dipendente della Cedecra Informatica Bancaria srl dal 9.5.2006 con qualifica impiegatizia e mansioni di programmatore junior, veniva licenziato per giusta causa (per avere pronunciato epiteti ingiuriosi nei confronti di colleghe tra cui tale Viglietti, per avere posto in essere molestie sessuali nei confronti di quest’ultima nonché per avere effettuato un accesso non autorizzato sul c/c del marito della predetta Viglietti).
2. Impugnato il recesso, il Tribunale di Bologna con ordinanza del 30.11.2015, accertata la sussistenza degli addebiti e ritenuta proporzionata la sanzione espulsiva nonché disattesa la violazione dell’art. 4 della legge n. 300 del 1970 e degli accordi sindacali del 29.9.2014, ha rigettato le domande formulate dal lavoratore.
3. A seguito di opposizione ex art. 1 co. 51 della legge n. 92 del 2012, il medesimo Tribunale, con la pronuncia n. 150 del 2018, ritenuta la insussistenza dei fatti contestati, ha revocato l’impugnata ordinanza e ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento, condannando la società a reintegrare il Be. nel posto di lavoro e a pagargli una indennità risarcitoria fino ad un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, detratto l’aliunde perceptum, oltre alla regolarizzazione contributiva assistenziale e previdenziale.
4. Proposto reclamo da parte della Cedecra Informatica Bancaria srl, la Corte di appello di Bologna, in accoglimento del gravame, con la sentenza n. 690 del 2018, ha rigettato l’originario ricorso presentato da Ga. Be..
5. I giudici di seconde cure hanno evidenziato che: a) si era formato un giudicato interno in ordine alla statuizione del Tribunale che aveva dichiarato inammissibile la domanda del Be. diretta ad ottenere il ristoro dei pretesi danni non patrimoniali e che aveva escluso la prospettata ritorsività del licenziamento, non essendovi state censure al riguardo; b) erano stati dimostrati gli addebiti contestati al Be. con la lettera del 3.4.2015 nonché la giusta causa di recesso e la proporzionalità della sanzione espulsiva; c) anche sotto il profilo formale, con riferimento alla eccepita violazione dell’art. 4 della legge n. 300 del 1970, il licenziamento doveva considerarsi legittimo in quanto è consentito al datore di lavoro verificare se i propri dipendenti utilizzino indebitamente gli strumenti messi a loro disposizione per fini esclusivamente professionali.
6. Avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione Be. Ga. affidato a cinque motivi, cui ha resistito con controricorso la Cedecra Informatica Bancaria srl.
7. Le parti hanno depositato memorie.
Ragioni della decisione
1. I motivi possono essere così sintetizzati.
2. Con il primo motivo il ricorrente denunzia, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 324 c.p.c., con riferimento alla parte della pronuncia impugnata relativa al passaggio in giudicato del capo della sentenza n. 150 del 2018 del Tribunale di Bologna in cui era stata esclusa la ritorsività del licenziamento intimato. Sostiene di non avere eccepito, nel merito, la natura ritorsiva per cui la Corte di appello aveva errato nel ritenere passato in giudicato il rigetto di tale domanda.
3. Con il secondo motivo si censura, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., la falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 5 della legge n. 604 del 1966 sull’inidoneità, a differenza di quanto ritenuto dalla Corte di appello, del compendio probatorio emerso all’esito del primo grado di giudizio ai fini della pronuncia di legittimità del licenziamento intimato all’odierno ricorrente.
4. Con il terzo motivo il Be. si duole della violazione dell’art. 18 co. 4 della legge n. 300 del 1970, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., in ordine alla insussistenza dei fatti contestati, diversamente da quanto reputato dai giudici di seconde cure, a rendere fondato l’addebito mosso nei suoi confronti.
5. Con il quarto motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., la falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 2106 c.c., in ordine alla illegittimità del licenziamento intimato al Be. per insussistenza della giusta causa e per difetto del requisito di proporzionalità, in relazione alla entità dei comportamenti tenuti, al contesto dei rapporti soggettivi che intercorrevano con la dott.ssa Vignetti e alla condotta irreprensibile posta in essere dall’incolpato nel corso di tutto il rapporto di lavoro con la società.
6. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., la falsa applicazione dell’art. 4 di cui alla legge n. 300 del 1970, nella dizione in vigore all’epoca dei fatti oggetto di causa, per avere errato la Corte territoriale nel ritenere, in contrasto con la disposizione citata che vieta l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, che il datore di lavoro non solo possa, ma debba verificare se i propri dipendenti abbiano indebitamente utilizzato gli strumenti messi a loro disposizione per fini esclusivamente professionali, allorquando la società ha contestato al Be. che, dopo essersi procurato il nome del marito della Vignetti, aveva visionato il suo conto corrente riferendo alla collega il relativo saldo.
7. Per motivi di pregiudizialità logico-giuridica va posticipato l’esame del primo motivo del ricorso.
8. Orbene, venendo all’esame secondo motivo, deve rilevarsi la sua infondatezza.
9. La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi che il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, poiché in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. (Cass 5.9.2006 n. 19064; Cass. 10.2.2006 n. 2935).
10. Nel caso de quo la Corte territoriale, applicando correttamente l’art. 5 della legge n. 604 del 1966 secondo cui l’onere della prova della giusta causa del licenziamento spetta al datore di lavoro (Cass. n. 9590 del 2001; Cass. n. 13188 del 2003), ha ritenuto (pagg. 9 e ss. della gravata sentenza) con congrue e corrette argomentazioni, che la società aveva dimostrato che i fatti addebitati al Be. configuravano un inadempimento ai suoi obblighi contrattuali così elevato da impedire la prosecuzione del rapporto di lavoro, non potendo il datore di lavoro continuare a riporre fiducia in un dipendente che aveva tenuto condotte così gravi ed offensive nei confronti di una collega di lavoro.
11. Il terzo motivo è inammissibile.
12. Il ricorrente, infatti, invoca la violazione di una norma (art. 18 co. 4 legge n. 300 del 1970) che non è stata applicata nella fattispecie, risolvendosi, invece, la doglianza in una mera ed inammissibile richiesta di riesame delle circostanze di causa, ampiamente esaminate dalla Corte di merito, che ha considerato sussistente la gravità dei fatti contestati.
13. Il quarto motivo è infondato.
14. La giusta causa di licenziamento e la proporzionalità della sanzione disciplinare sono nozioni che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia delle cd. clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama; tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è, quindi, deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici (Cass. 9.7.2015 n. 14234; Cass. 26.4.2012 n. 6498).
15. La contestazione del giudizio valutativo operato dal giudice di merito non si deve limitare, pertanto, per essere ammissibile in sede di legittimità, ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma deve contenere, invece, una specifica denunzia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli “standards” conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale.
16. Nella specie, la Corte territoriale ha ritenuto, in sostanza, che i fatti addebitati (comportamenti tenuti dal lavoratore consistiti nelle molestie sessuali avvenute in ufficio nei confronti della collega Viglietti e accessi non autorizzati sul conto corrente del marito della predetta) fossero di gravità tale da integrare l’ipotesi della giusta causa di licenziamento e da giustificare, quindi, l’applicazione della massima sanzione espulsiva osservando che la particolare gravità della condotta portava a ritenere il comportamento del lavoratore idoneo a vulnerare, in maniera irreparabile, il peculiare vincolo di fiducia con la società e, quindi, a considerare il licenziamento sorretto da giusta causa; in ordine alla proporzionalità ha, poi, rilevato che i fatti posti in essere integravano una grave lesione dell’elemento fiduciario del rapporto di lavoro e che il datore di lavoro, tenuto al rispetto dell’art. 2087 c.c., non poteva non adottare una sanzione espulsiva a fronte della gravità dei fatti accertati.
17. Ciò a prescindere dalla rilevanza penale delle condotte, stante la autonomia, in tema di licenziamento, tra i due procedimenti, disciplinare e penale (cfr. Cass. n. 4758 del 2015).
18. Si tratta di una valutazione in fatto, adeguatamente motivata, coerente sul piano logico, rispettosa dei principi giuridici in precedenza indicati e corretta sotto il profilo della sussunzione con le disposizioni contrattuali collettive.
19. Il giudizio operato dalla Corte territoriale non è stato, del resto, sottoposto a specifiche censure, idonee ad evidenziare la non coerenza del predetto giudizio agli “standards” di valutazione esistenti nella realtà sociale, limitandosi, in realtà, il ricorrente a ripercorrere la valutazione di merito e a contrapporre ad essa la propria diversa valutazione.
20. Il quinto motivo è anche esso infondato.
21. E’ opportuno precisare che, nel caso di specie, la norma che disciplina il caso concreto è l’art. 4 co. 2 della legge n. 300 del 1970 nella versione ratione temporis applicabile prima della nuova formulazione introdotta dal D.lgs. n. 185 del 2016.
22. La condotta contestata (nella settimana dal 23 al 27 marzo 2015, dopo essersi procurato il nome del marito della Viglietti, avere visionato il conto corrente e avere riferito alla collega il saldo del conto) era stata rilevata dalla società a seguito di una richiesta di chiarimenti del titolare del conto corrente.
23. Gli accertamenti effettuati dalla datrice di lavoro rientravano, quindi, nella categoria dei cd. “controlli difensivi” che esulavano dall’ambito applicativo dell’art. 4 co. 2 della legge n. 300 del 1970.
24. Si trattava, infatti, di verifiche dirette ad accertare comportamenti illeciti e lesivi dell’immagine aziendale e costituenti, astrattamente, reato (Cass. n. 2722 del 2012; Cass. n. 10955 del 2015).
25. Inoltre, va osservato che si è trattato di controlli disposti ex post, ossia dopo l’attuazione del comportamento in addebito, così da prescindere dalla mera sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa (Cass. n. 13266 del 2018) e che non può ritenersi in alcun modo compromessa la dignità e la riservatezza dei lavoratori, atteso che non corrisponde ad alcun criterio logico-sistematico garantire al lavoratore, in presenza di condotte illecite sanzionabili penalmente o con sanzione espulsiva, una tutela maggiore di quella riconosciuta a terzi estranei all’impresa (Cass n. 10636 del 2017).
26. A ciò va aggiunto, per completezza, che -in ogni caso (la circostanza è riconosciuta da entrambe le parti) – vi era un accordo sindacale del 29 settembre 2014, volto a disciplinare le modalità di svolgimento dei controlli ex art. 4 St. lav., in cui era prevista la utilizzazione da parte della società delle informazioni estratte nell’ipotesi di sussistenza di indizi di reati.
27. Nel caso de quo, si rientrava certamente in questa fattispecie perché, da un lato, il dato letterale dell’accordo richiedeva la presenza di “indizi” di reato e non di “prove” e, quindi anche la possibilità di effettuare una prima verifica sulla natura dei comportamenti commessi, ai fini del successivo inoltro alle autorità competenti; dall’altro, perché la contestazione, facendo riferimento ad accessi ad un conto corrente di terze persone e all’avere riferito notizie di esso a persona estranea al conto medesimo, era riferibile inequivocabilmente alla ipotizzabilità di illeciti penali di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003.
28. Con riguardo, infine, al primo motivo, deve rilevarsi la sua inammissibilità per carenza di interesse sull’oggetto della censura.
29. Invero, è orientamento oramai consolidato nella giurisprudenza di legittimità (Cass n. 9468 del 2019; Cass. n. 26035 del 2018) che in tema di licenziamento nullo perché ritorsivo, il motivo illecito addotto ex art. 1345 c.c. deve essere determinante, cioè costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale, con la conseguenza che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore, ai fini dell’applicazione della tutela prevista dall’art. 18 co. 1 St. lav. novellato, richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento.
30. Nella vicenda in esame, l’accertata giusta causa del recesso, per quanto sopra detto, determina l’irrilevanza della censura sul punto, non rivestendo alcuna influenza una eventuale decisione di rito sulla problematica della ritorsività del licenziamento, se cioè vi sia stata, da parte dei giudici di seconde cure, ultra-petizione o lesione del principio del giudicato su una questione, che si assumeva non essere stata prospettata in primo grado, ma che non può più assumere alcuna importanza.
31. Alla stregua di quanto esposto il ricorso deve essere rigettato.
32. Al rigetto segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.
33. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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